Ciao Bati, ciao campione.
da "Il Messaggero" di lunedì 27 gennaio 2003
«Amici giallorossi, ho ricominciato ma vi amo»
Non ho mai amato il rumore. La grinta sì. In campo, nella vita. Amo invece la parola d’onore, l’amicizia, il coraggio. Mi sono portato dietro, dall’Argentina, questi gusti, assieme a un carattere forse difficile, ma onesto. Non ho mai risposto alle provocazioni. Ho aspettato e lavorato. Ho sempre preferito "combattere" facendo la mia professione, il calciatore. Il tempo, alla fine dei conti, mi ha sempre reso giustizia.
Le poche volte che ho parlato delle festa che mi piacerebbe avere, un giorno, quando deciderò di lasciare il calcio giocato, ho immaginato uno stadio pieno di gente felice, i colleghi e gli amici intorno a me. Ma ora, a Milano, ho iniziato un’altra fase della mia carriera. Il pensiero dell’addio è ancora lontano.
Milano è la mia terza città in Italia. Nulla posso ancora raccontare della vita qui. Mentre il mio atteggiamento nei confronti della società che mi ha chiamato deve essere - ed è - uno solo: lealtà, entusiasmo e voglia di far bene. Lo stesso che mi ha animato, dal primo all’ultimo giorno, quando ho vestito la maglia della Fiorentina e poi quella della Roma.
A Firenze mi lega un lungo periodo di vita, e bei ricordi. Sono stati dieci anni di continua crescita, tanti gol, tanto amore dei tifosi. Alcuni dei quali, quando sono passato alla Roma, non mi hanno "perdonato", scaricandomi addosso i soliti aggettivi, da mercenario a traditore e via dicendo. A Firenze, in ogni caso, dove "bischero" non vuole mai dire bischero, l’insulto può persino diventare affettuoso. Così, in questa dolce città dell’Italia centrale, pensai di potermi concedere il gesto della mitraglia. Ero sicuro che non avrebbe stimolato istinti maligni, violenze, intemperanze. A chi mi domanda se sono vissuto, nei confronti di Firenze, di continua nostalgia, rispondo che la nostalgia è una condizione dell’anima che è normale provare. Chi ne resta prigioniero, però, è stupido.
Tornando ai tifosi. Li ritengo un elemento fondamentale del rito "calcio". Senza di loro, lo stadio e la partita sarebbero solo un insipido balletto. Mi sarebbe piaciuta, con i tifosi, una costante unità di intenti. Difficile da ottenere, certo, ma è anche l’unico strumento per arrivare a qualcosa di buono. Non arrivarci è una sconfitta personale, almeno sul piano della comunicazione. Io non sono un estroverso, non lego facilmente, non ho la passione dei rapporti pubblici. Lo stesso scudetto tanto amato, conquistato con la Roma (al quale penso di aver contribuito), ho preferito viverlo fra la gente, nella strada, per gustare nell’anonimato la gioia che, assieme ai compagni, avevo procurato alla città.
Roma è un magnifico posto. I romani sono magnifici, per storia e carattere, così come i romani romanisti sono capaci di entusiasmi unici. Che si sia deteriorato il mio rapporto con una parte di loro mi dà dolore. Mi hanno rimproverato colpe che non ho, non hanno apprezzato certe mie posizioni, dettate solo dalla lealtà, hanno scelto, dopo un mio periodo di scarsa fortuna in campo (peraltro superato), di darmi addosso. Con questo, non li dimenticherò. La festa dello scudetto giallorosso, tanto atteso a Roma e dalla Roma, resterà uno dei ricordi migliori della mia vita, di uomo e di calciatore. I miei genitori mi hanno insegnato che bisogna ricordare solo le cose belle e andare avanti per la propria strada. L’importante è guardarsi allo specchio e potersi dire: non hai niente da rimproverarti. Conservando la fiducia che tutto, prima o poi, potrà chiarirsi. Con questo, ciao, Roma. E’ stato comunque bellissimo.
GABRIEL OMAR BATISTUTA
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