Cronache giallorosse 

Pensieri ed emozioni dagli spalti della Sud

Quelle Coppe Italia così importanti
(postato su it.sport.calcio.roma il 21.01.2003, alla vigilia di Roma-Vicenza di Coppa Italia)

Una competizione sempre più snobbata, questa Coppa Italia, anche tra noialtri tifosi della magica... e dire che, in un passato neanche troppo lontano, la conquista della coppa nazionale ha significato ben più di un trofeo in bacheca, per il popolo giallorosso. Perché caso ha voluto (ma forse non è stato il caso, a pensarci bene) che le ultime quattro coccardine tricolori apposte sulla maglia della Roma abbiano rivestito un significato tutt'altro che anonimo, giacché arrivarono a conclusione di altettante stagioni profondamente segnate da grandi amarezze: quattro momenti di terribile delusione - forse tra i peggiori della storia giallorossa - in cui la Roma e il suo pubblico seppero andare avanti, nell'appendice della stagione richiesta dalla coppa Italia, e stringersi tutti insieme per arrivare a vincere comunque un trofeo, che era minore rispetto agli obiettivi appena mancati, ma diventava qualcosa di straordinario proprio per il fatto di averlo vinto in quel momento lì, nonostante tutto, senza mollare, andando avanti. Diventava un segno che la vita e la Roma continuavano, qualcosa di tremendamente importante a cui aggrapparsi dopo una sofferenza così forte.
Partendo dalla più recente, impossibile dimenticare la doppia finale del 1991 contro la Sampdoria: la partita di andata all'Olimpico contro i blucerchiati si disputò otto giorni dopo la mancata impresa nella finale di Coppa Uefa contro l'Inter, vinta per uno a zero ma insufficiente a ribaltare il passivo doppio subito all'andata, e quindi terminata nel modo peggiore, guardando i nerazzurri alzare il trofeo europeo nel nostro stadio, per poi ritrovarci la sera successiva a riempire nuovamente l'Olimpico - gremito in ogni ordine dei posti per la seconda volta in 24 ore - nella festa per l'addio al calcio di Bruno Conti. Ma soprattutto, neanche cinque mesi prima, in un freddo sabato di gennaio in cui iniziava la prima guerra del Golfo, ci aveva lasciato Dino Viola.
Non solo il Presidente dello scudetto e della finale di Coppa dei Campioni, ma il Presidente di sempre, per noi romanisti allora poco più che ventenni, l'unico che avessimo memoria di aver visto alla guida dell'A.S. Roma, i presidenti prima di lui erano solo nomi sentiti nei racconti dei genitori o dei tifosi più anziani. Ed a fine stagione, una settimana dopo aver perso la Coppa Uefa inseguita per tutto l'anno (indimenticabili le serate contro Benfica, Valencia, Anderlecht e Bordeaux, memorabile la semifinale contro il Broendby risolta all'ultimo minuto da una bordata del tedesco) e una manciata di giorni dopo aver reso omaggio a Brunetto da Nettuno, fu per tutti noi importantissima la possibilità di avere ancora un appuntamento di scorta, per ritrovarci tutti insieme a gremire nuovamente gli spalti e ad inneggiare al Presidente, con la speranza di poter dedicare alla sua memoria la Coppa Italia 1991. E ce la facemmo, ipotecando il trofeo con un secco 3-1 proprio in quella partita di andata, e pareggiando 1-1 dieci giorni dopo a Marassi, chiamando Flora Viola ad alzare la Coppa insieme a Capitan Giannini, circondati da Pluto Aldair, Rudi Voeller (a segno sia all'andata che al ritorno), Cicoria Tempestilli, Sebino Nela (unico reduce del tricolore 1983 dopo l'addio al calcio di Bruno Conti), Ruggero Rizzitelli, Amedeo Carboni e tutti gli altri protagonisti di una stagione dalle due facce, deludente in campionato ed esaltante nelle coppe, giungendo a disputare due doppie finali nel giro di un mese, fino a quel 9 giugno al Marassi, l'ultima partita dell'era Viola, che era giusto finisse com'era cominciata: con la vittoria della Coppa Italia.
Ed allora, risaliamo a quella vinta il 17 giugno del 1981, dopo la delusione del campionato finito alle spalle della Juve, nonostante il titolo di campione d'inverno ci avesse fatto sognare la fine del digiuno tricolore che durava da quasi quarant'anni... sogno che si infranse con il celebre furto del goal di Turone, nella sfida a Torino che valeva il titolo. Una grande amarezza, ma c'era ancora da giocare la finale contro il Torino: pareggio per uno a uno sia all'andata che al ritorno, con Franco Tancredi a fare il fenomeno sui rigori, fotocopia della Coppa Italia già vinta l'anno precedente, e Falcao a correre felice per il campo dopo aver realizzato il penalty decisivo.
Passano tre anni, ed ecco quella del 1984, subito dopo il più grande dei sogni ed il peggiore degli incubi, subito dopo la ferita più grande della storia romanista, il punto d'arrivo e di partenza dei pensieri d'ogni tifoso: subito dopo Roma-Liverpool. Una finale di Coppa Italia conquistata con le unghie e i denti, contro il Milan ai quarti e il Torino in semifinale: quattro partite giocate una manciata di giorni dopo quei terribili rigori di Coppa dei Campioni (a quel tempo gli ultimi tre turni della Coppa Italia si disputavano tutti a giugno). Ed a ruota, la doppia finale contro il Verona, vinta prima al Bentegodi e poi all'Olimpico: il 26 giugno 1984 ero in Tevere Nord, la Roma segnò sotto la Sud, non vidi e non capii come, sul tabellone scrissero Graziani, appresi poi che si era trattato di un autogoal, ma in tutti questi anni non sono mai riuscito a rivedere il filmato di quell'azione. Ricordo però benissimo il momento in cui un luccichio al centro del campo, in mezzo a un gruppo di maglie rosse, ci segnalò il momento esatto in cui Agostino alzava la Coppa ad intercettare la luce dei riflettori e a rifrangerla sui nostri occhi umidi. E tutti a festeggiare, a celebrare una coppa ben diversa da quella che avevamo sognato per tutto l'anno, da Roma-Gotebordg al miracolo di Roma-Dundee fino alla magica e maledetta notte del 30 maggio... ma era lo stesso la nostra coppa, la nostra Roma, eravamo noi, a salutare l'ultima partita di Agostino di Bartolomei con la maglia giallorossa, l'ultima di Niels Liedholm sulla nostra panchina, la fine di un'era. Ed anche stavolta, a sugellare la solennità del momento, c'era una Coppa Italia alzata dal nostro Capitano.
Ed infine quella del 1986, subito dopo Roma-Lecce, QUEL Roma-Lecce, con la squadra messa insieme a malapena tra panchinari e pischelli della primavera (Gregori, Lucci, Impallomeni, Tovalieri, Desideri, Di Carlo... e l'allora giovane promessa Giuseppe Giannini) perché quasi tutti i titolari erano in Argentina per i mondiali, con le varie nazionali. Quel Roma-Inter ai quarti di finale, prima partita all'Olimpico dopo quella dell'Incubo, due settimane e mezzo dopo le lacrime di Franco Tancredi che chiusero il disastro firmato Barbas e Pasculli, e decretarono la fine di quella fantastica rimonta sulla Juve che era giunta a compimento la settimana prima in una epica trasferta a Pisa. Emozioni sepolte nel peggiore dei modi ed ormai ben lontane, in quella mesta gara di Coppa contro i nerazzurri, orario pomeridiano, stadio mezzo vuoto. Desideri su rigore, poi Tovalieri per un insperato due a zero. Al ritorno a Milano, proprio Giannini (comunque, per quanto pischello, uno dei pochissimi di quella formazione ad essere già titolare in prima squadra) limitò il passivo a due a uno per loro, e passammo il turno. Poi Roma-Fiorentina in semifinale, sempre due a zero in casa, Righetti e ancora Tovalieri, e sempre Giannini a siglare il goal fuoricasa che limitava la sconfitta a due a uno e valeva la finale.
Prima a Genova, anche lì sconfitti per due a uno. Poi all'Olimpico, il 14 giugno 1986.
Dio mio, quel Roma-Sampdoria!
Toninho Cerezo aveva già dato in campionato quello che doveva essere l'ultimo addio alla maglia della Roma, e invece l'imprevista eliminazione del Brasile ai mondiali gli diede il tempo di rientrare a Roma a poche ore dalla finale, per salutare ancora il pubblico dalla tribuna. Ma Eriksson lo portò a sorpresa in panchina, nonostante il fuso orario intercontinentale da cui era reduce, poi decise addirittura di regalargli l'ingresso in campo all'ottantottesimo... e in quei due minuti lui cosa ti fa? Si precipita in area, si arrampica in cielo a colpire di testa, e segna il goal del due a zero.
Mi risuona ancora nella testa il mio grido schizoide ed incredulo, abbracciato a mio padre e a mille e mille altre persone altrettanto impazzite: "ha segnato Cerezo! ha segnato Cerezo! ha segnato Cerezo! ha segnato Cerezo!"

Roma mia, ha segnato Cerezo.

Fil, 28 ottobre 2002







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