«Roma rende più forti»
DAMIANO TOMMASI: IL GIORNO DOPO DI UN GIOCATORE CHE STUPISCE TUTTI
di Daniele Lo Monaco (da "Il Romanista" del 29.11.2005)
L'intervista s’interrompe subito, alla prima risposta.
Il tavolino del bar di Trigoria, davanti al divanetto in
cui Damiano Tommasi sta per rilasciare la sua prima
intervista da quando è tornato titolare della Roma, pende
da una parte. Damiano si alza, guarda il tavolino, lo solleva da
una parte, risistema la zampa, la guarda soddisfatto, si risiede.
Ora si può cominciare. Ora l’armonia è totale. E forse basterebbe
questo episodio a raccontare il suo mondo. Di uno che per
noi vale più di un pallone d’oro.
11 Tommasi chiedeva ieri Il Romanista in prima pagina. Un
premio per aver vinto la tua scommessa.
«A me interessava trovarne uno. E poi non credo che con undici
Tommasi si vinca...».
Sei stato più contento per il gol o per aver retto senza
problemi novanta minuti?
«Il gol non è il mio lavoro, ma la gioia dei miei compagni
di squadra mi ha fatto capire quanta voglia ci fosse in
tutti quanti di passare in vantaggio».
Significativo che l’assist sia stato di Cassano.
«Sono contento per lui, credo che lui stesso sia rimasto
contento per aver fatto meglio che con lo Strasburgo».
Anche per la posizione che avevate in campo
parlavate molto.
«Sì perché per entrambi c’erano dei meccanismi tattici
da scoprire».
Sembrava avessi un atteggiamento paterno e dopo quella
discussione a Trigoria di qualche giorno fa è sembrato
singolare, anzi bello.
«L’episodio di qualche giorno fa è irrilevante. Parlavamo solo in
funzione di quello che dovevamo fare sul campo. E’ una mia caratteristica,
quella di tenere svegli e attenti i miei vicini di campo».
Scusa la curiosità, ma tu ormai giochi con lui da tanto tempo. Ti
sembra cresciuto? Più maturo?
«Tutti crescono... L’esperienza insegna, no?».
Non è una perdita anche per la nazionale che stia fuori? Se uno
viene dall’Indonesia come gli spiegheresti che non gioca?
«E come gli spiegheresti che il Real Madrid non è primo in classifica?
Il calcio è uno sport collettivo. Mediaticamente ha il suo
fascino, ma non si può parlare solo di un elemento. Gli Europei
li ha vinti una squadra come la Grecia».
Torniamo a te. La voglia che avevi di giocare era evidente:
talvolta ti mettevi in posizione che sembrava dovessi scattare
per i cento metri.
«Voglia di giocare ne avevo tanta. E’ parecchio tempo che ce l’ho».
E’ ancora un divertimento?
«E’ soprattutto un divertimento».
Con gli anni è cambiata la percentuale?
«Prima dell’infortunio stava calando. Dopo l’’infortunio è tornata
la voglia ed è salito il divertimento».
Eri contento per la presenza di tua moglie sugli spalti.
«Sì. Ma volevo anche onorare la memoria di quattro persone che
non ci sono più. Intanto se ho giocato è perchè Amantino è volato
in Brasile per la scomparsa del papà e questo evento ci ha
profondamente rattristati. Così come piango la scomparsa di
Luciano Fioravanti, di Luisa Petrucci, di Francesco Campanella.
Persone che avrebbero gioito con me, ieri».
Come sei uscito dal tunnel, Damiano?
«Intanto per la bravura di chi mi ha assistito e per il fatto che non
mi ero fatto poi troppo male. Di sicuro quello che conta di più è
la passione. Nei giorni in cui vorresti restare a letto piuttosto che
alzarti per andare a fare gli esercizi, se vai a fare gli esercizi è solo
per la passione».
Hai mai visto il traguardo troppo lontano?
«Mai. Ho sempre saputo che dipendeva solo dal mio lavoro e che
un eventuale esito negativo non avrebbe pesato sulla mia vita.
Sono altre le cose importanti per me: mia moglie, la mia famiglia.
E’ come affrontare una partita sapendo che il risultato qualunque
esso sia non condizionerà il mio postpartita».
Hai mai pensato di smettere?
«Mai. Ci avevo cominciato a pensare quando giocavo. Dal giorno
dell’infortunio non ci ho mai pensato. E tuttora non ci penso.
Voglio godermi il momento e non pensare a nient’altro».
Quando hai capito che stavi per vincere la scommessa?
«Beh, i due mesi estivi trascorsi a Verona mi hanno fatto bene.
Un paio di contrasti in partitella con Zaccaria mi ha fatto capire
che potevo tornare a giocare».
Chi è Zaccaria?
«Uno dei miei fratelli. Ho Alfonso, 34 anni, Zaccaria, 32, Samuele,
20. E poi ho Anita, una sorella. Il primo ha avuto problemi
più grossi dei miei, con tre operazioni alle ginocchia e da un
anno ha smesso di giocare, l’altro è quello che ha fatto il test
e anche lui nel 2004 s’è rotto il crociato. Non è stato un bell’anno...».
Hai detto di aver conosciuto in profondità Chivu nella lunga
fase della riabilitazione. Lui ora non sembra perfettamente in
sintonia con l’ambiente romano. Che idea te ne sei
fatto?
«Roma non è facile per nessuno, figurarsi per uno
che arriva dall’Ajax che fa scuola per tante società
nel mondo, che atleticamente prepara i suoi giocatori
in maniera diversa. Al di là del giocatore, io
dico che Cristian è un ragazzo a posto.Non dimentichiamo
che qui è stato criticato anche Aldair, c’era
chi diceva che doveva smettere di giocare. Chi gioca
a Roma può giocare dappertutto. qui le provi tutte, dalla
contestazione all’esaltazione».
Ora c’è la società nell’occhio del ciclone.
«La società ha il diritto di fare come meglio crede. Certo
che sentirsi contestati quando si è convinti di far bene può
disorientare, come capita ad uno di noi quando gioca con
lo stadio che fischia».
Imputano all’amministratore delegato Rosella Sensi di
aver riservato parole dolci a Galliani e Moggi e più dure
a Zeman, il tuo amico Zeman.
«Io Zeman lo conosco bene e ne ho un certo giudizio.
Galliani e Moggi non li conosco personalmente, non
saprei che cosa pensare di loro».
Non ti basta quello che si legge o si vede o si sente?
«Posso farmi un’idea di qualcosa. Ma se mi chiedi un
giudizio approfondito non sono in grado di darlo».
Lavoreresti con Moggi?
«La mia scelta, ammesso e non concesso che una squadra
di Moggi volesse ingaggiarmi, si fonderebbe su altri fattori.
Sulla squadra, l’ambiente per la mia famiglia, magari
l’allenatore, le prospettive, ecc. Non penserei ai dirigenti».
Davvero non pensi affatto al rinnovo del contratto?
«Penso a Belgrado, dove tra l’altro non posso andare perché
non sono nelle liste Uefa, e a Lecce».
Ha fatto notizia la scelta del minimo sindacale.
«Per me la notizia era poter tornare a giocare».
Dove deve migliorare la Roma, secondo te?
«Nella continuità. Nell’atteggiamento in campo e nella volontà
di crederci».
Condividi l’atteggiamento antirazzisti di Zoro?
«Ha dato una scossa. Ma bisogna sempre sottolineare a livello
mediatico che chi ulula è una minoranza. Si vide a Roma-Leeds,
qualcuno fece uh-uh, la maggioranza dello stadio fischiò. Per
me è un gesto tanto poco intelligente che qualifica chi lo fa. Magari
lo fanno senza pensarci. Se invece ci pensano, devono rivedere
un po’ di cose».
Ti ha mai chiamato Lippi in questi tempi?
«Sì, due volte. La prima ai tempi dell’infortunio. Poi quando sono
tornato a giocare».
Non è che per caso ha fatto cenno ai problemi che ha a
centrocampo?
«Io volevo tornare a giocare. Non ho tra i miei obiettivi quello di
raggiungere la Nazionale. Anche quando venni convocato, non
fu perché ci pensai. Ma solo perché feci bene nella Roma».
Ti senti un esempio?
«Non voglio esserlo. Potrei esserlo se qualcuno avesse il mio
stesso infortunio. Ma la casistica è bassa. E spero in questo senso
di non esserlo mai».
Quando giochi pensi mai all’integrità del ginocchio?
«No, non mi è mai capitato di farlo».
Le tue figlie che cosa ti hanno detto?
«La più grande, Beatrice, ha visto i replay in tv e ha pensato
che avessi segnato una tripletta. La secondogenita mi ha
chiesto come avessi fatto a salutare e individuare mia moglie
in tribuna».
E come hai fatto?
«Ho salutato verso il settore dove sapevo che sarebbe stata. Era
con la più piccola. Erano infreddolite e sono andate a casa alla fine
del primo tempo».
Tanto, avevano già visto tutto!
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