Il 29 febbraio del 2000, durante un periodo costellato da episodi di razzismo e violenza negli stadi, e di discussioni esagerate attorno a rigori dati o non dati nei programmi televisivi, Damiano Tommasi scelse la prima pagina del "Messaggero" per pubblicare un suo sfogo contro l'esasperazione nel mondo del calcio, e per invitare quest'ultimo a creare una vera cultura sportiva. L'articolo, che trovate riprodotto in questa pagina, è rimasto famoso anche a distanza di anni, e rappresenta un vero e proprio manifesto di come Damiano vive il dar calci ad un pallone, l'attività che rappresenta contemporaneamente la sua professione e la sua maggiore passione.
"Anch'io ho un sogno..."
(da "Il Messaggero" del 29 febbraio 2000)
Non c'e' solo il calcio. Non sono importanti solo i calciatori. E' assurdo vedere palinsesti televisivi studiati e organizzati, secondo gli appuntamenti calcistici e il Parlamento italiano non può curarsi delle vicende del campionato italiano. Non è forse troppo il fumo?
Davvero il tema di discussione per un'intera settimana puo' essere un rigore dato o non dato? Ma gli altri cinque miliardi e mezzo di persone che non sanno cos'è il calcio di cosa parlano?
Attenzione, sono parole di un innamorato del calcio, di uno che correva dietro ad un pallone quando ancora non andava a scuola, di uno che lavora con un pallone. Ma sono parole di uno che cambia volentieri professione per non perdere la famiglia, di uno che preferisce parlare dei figli che non dell'arbitro, di uno che a volte si vergogna di fare il suo mestiere. La violenza sugli spalti, in campo, negli spogliatoi, in sala stampa, gli insulti, gli sputi, i cori razzisti, gli striscioni mi amareggiano enormemente.
Si sta esasperando uno sport che per la maggior parte delle persone dovrebbe essere puro divertimento. Non c'è mezzo lecito o no che non si accetti pur di ottenere una vittoria. Addirittura la propria salute passa in secondo piano. Genitori che puntano tutto sul proprio figlioletto che, non si sa mai, magari arriva in serie A, trascurando volentieri la scuola.
"Mister, sa, non sono contento di mio figlio... E' cambiato sì, è più educato, rispetta di più i suoi amici, è più ordinato, si pulisce le scarpe... Però non migliora, non impara a giocare a calcio...!" Sono frasi consuete su tutti i campi di periferia. Famiglie che sudano per arrivare a fine mese ma che non si perdono una partita della propria squadra.
Vale davvero la pena vivere per il calcio? Il Milan, la Juve, la Roma, la Fiorentina, l'Inter sono davvero piu' importanti della questione balcanica, dell'Ira, dell'Eta, della pena di morte?
Lo sport dovrebbe essere vissuto come tale e come tale dovrebbe insegnare. C'e' un vincitore ed un vinto in ogni partita e lo stesso non ci si rende conto che sconfitta non vuol dire complotto, svista, torto subito, sudditanza psicologica. Mi rivolgo a tutti i giornalisti sportivi della carta stampata, della radio e della televisione: creiamo una cultura sportiva che sappia accettare la sconfitta, che commenti il tiro, la parata, il cross, il tackle, la rovesciata, il colpo di testa, la sovrapposizione e non il fuorigioco, il rigore, la punizione, il fallo laterale o la distanza della barriera; parliamo di calcio giocato dando importanza allo spettacolo, non alle polemiche. Esaltiamo lo sport, il gesto tecnico senza troppo enfatizzare una partita di calcio.
E' triste assistere a trasmissioni sportive completamente infarcite di nulla, di sterile parlarsi addosso, quasi a voler diffondere l'idea che è di vitale importanza capire se era rigore o meno. Si leggono sempre le stesse cose, l'arbitro ci ha penalizzato, se ci avesse fischiato il rigore, ci sono ancora tante partite, è una partita difficile, speriamo che ci sia un bravo arbitro, all'andata ci ha fischiato tutto contro, c'era un rigore su di me...
Servirebbe una sterzata decisa per ridare la dimensione umana ad un ambiente fatto di ruoli. Non si parla abbastanza delle famiglie dei giocatori, degli arbitri, dei presidenti, non si riesce a presentare i protagonisti come uomini con le loro debolezze, i loro pregi ed i loro difetti, i loro sentimenti e le loro difficoltà.
In un ambiente fatto più di persone che di arbitri, di centrocampisti, di attaccanti, di presidenti, penso che risulterebbe più facile non mancare di rispetto. E' qui il punto: l'arbitro si può offendere tanto è abituato, il tifoso dell'altra squadra non è più un ragazzo come me che lavora, va a scuola, è fidanzato, il giocatore di colore non si vede come persona con sentimenti, affetti e passioni, il giocatore della squadra avversaria è solo un ostacolo da superare a qualsiasi costo, non importa se l'altro soffre o è umiliato, qui si sta giocando una partita di calcio e l'imperativo è vincere.
Disturbando Martin Luther King, mi sento di dire che anch'io ho un sogno...
Vedere due squadre, insieme al centro del campo, vincitori e vinti ugualmente sereni, salutare il pubblico al triplice fischio come si usa in qualsiasi teatro alla fine dello spettacolo; sentire un allenatore arrabbiarsi col suo attaccante cascatore; vedere un giocatore espulso umiliato, scusarsi con i compagni ed il pubblico, perché ritenuto non meritevole di continuare a giocare; sentire uno stadio intero applaudire i vincitori perché più bravi, senza badare al colore della maglia; vedere un tifoso complimentarsi con l'arbitro che giustamente fischia un fallo contro; leggere che il risultato non e' dipeso dalle decisioni arbitrali; sentire solo cori d'incitamento per la propria squadra e non contro la squadra avversaria; vedere uno stadio disertato dalle forze dell'ordine perché non servono.
Anch'io ho un sogno...
Damiano Tommasi